Il Regno delle contraddizioni: quando il coraggio contro la corruzione si paga con il silenzio

Nel Marocco di oggi, la parola “corruzione” non è più un sussurro nelle stanze oscure del potere, ma un grido pubblico, straziante, che rimbalza tra le aule delle università, i corridoi dei tribunali e le pagine dei social media. A lanciare l’allarme sono intellettuali, giuristi, giornalisti e attivisti, stanchi di vedere il loro paese inghiottito da un sistema che premia i corrotti e punisce chi osa denunciare.
In un articolo lucido e impietoso intitolato “Nel Marocco delle meraviglie: la voce della giustizia si soffoca in silenzio”, il professore marocchino di diritto internazionale e già membro delle Nazioni Unite, Mohamed Cherkaoui, ha tracciato un quadro inquietante: “Altrove, chi denuncia la corruzione è protetto. In Marocco, rischia l’umiliazione, la persecuzione, e spesso, il carcere”. È un sistema tentacolare, un “polpo strutturale”, come lo ha definito lui, che intreccia la brama del guadagno illecito con l’omertà delle istituzioni.
A confermare queste parole è l’esplosiva vicenda della vendita di diplomi universitari ad Agadir, un vero e proprio mercato nero della conoscenza. Secondo le rivelazioni, ottenere un titolo accademico era diventato una questione di denaro, relazioni e favoritismi, minando le fondamenta stesse dell’istruzione superiore. Il deputato del Partito della Giustizia e dello Sviluppo, Mohamed Yatim, ha definito lo scandalo “un segnale pericoloso del degrado morale delle istituzioni”, sottolineando come anche le università non siano più immuni alla corruzione.
Ma la farsa assume tinte tragiche quando si scopre che chi ha denunciato questo sistema, un professore della stessa università, è stato incriminato per diffamazione nel 2018. Il paradosso è disarmante: chi solleva il velo della verità viene perseguito, mentre i veri colpevoli restano protetti dall’ombra del Makhzen.
L’ex detenuta politica e blogger marocchina Saida El Alami, in un articolo dal titolo eloquente “L’intreccio velenoso della corruzione istituzionale in Marocco”, ha sottolineato come lo scandalo dei diplomi non sia un’eccezione, ma solo uno dei tanti tentacoli di una macchina ben oliata. Citato anche un altro caso emblematico: la cosiddetta operazione ‘Escobar del Sahara’, un’inchiesta sul traffico internazionale di droga che coinvolgerebbe alti funzionari di Stato. Per Saida, si tratta di una “resa dei conti interna tra fazioni dei servizi segreti”, più che di una vera volontà di giustizia.
A rendere la situazione ancora più cupa ci ha pensato il giornalista e attivista Mohamed Kandil, con il suo saggio “Un Regno in mano a una banda”. Secondo Kandil, il Marocco non sarebbe più uno Stato di diritto, ma “un’organizzazione mafiosa gestita da reti radicate nei servizi di sicurezza, nell’intelligence e addirittura nel palazzo reale”. In questa visione distopica, la polizia serve i baroni della droga, i media sono megafoni del potere e la giustizia è una maschera vuota.
Chi prova a opporsi rischia grosso. “In Marocco”, scrive Kandil, “la verità si paga con la morte”. Le sue parole fanno eco a una realtà fatta di intimidazioni, cause legali strumentali e una censura sempre più feroce.
In questo contesto, le recenti iniziative legislative sembrano voler blindare il sistema piuttosto che smantellarlo. Diverse associazioni per i diritti umani denunciano tentativi di “legalizzare l’impunità” e creare “privilegi ad hoc” per certi settori della società, smantellando ogni forma di accountability. Persino all’interno del Parlamento, le istituzioni preposte alla lotta alla corruzione sono sotto attacco, in una strategia volta a svuotarle di ogni potere.
Il Marocco, insomma, si trova a un bivio. Da un lato, una società civile sempre più consapevole e coraggiosa. Dall’altro, un apparato di potere che si chiude a riccio, proteggendo i suoi alleati e silenziando ogni dissidenza.
È una lotta impari, ma non ancora persa. Finché ci sarà qualcuno disposto a scrivere, parlare, denunciare, il fuoco della giustizia continuerà a bruciare, anche sotto la cenere dell’indifferenza.