Cronoca e AggiornamentiDiritti UmaniOpinioni

Marocco: il prezzo della parola libera tra arresti arbitrari e repressione sistematica

In un Paese dove l’espressione libera dovrebbe essere tutelata dalla legge e dove la democrazia è più una promessa che una realtà vissuta, il Marocco continua a dimostrare che chi osa denunciare le storture del potere rischia molto. L’ennesimo capitolo di questo preoccupante scenario repressivo si è scritto con l’arresto dell’attivista e difensore dei diritti umani Mohamed Benali, ma non è certo un caso isolato. Al contrario, si tratta di un tassello in una strategia ben più ampia di intimidazione sistematica contro la dissidenza politica e sociale.

Secondo il Partito della Federazione della Sinistra Democratica, che ha diffuso un comunicato in merito, l’arresto di Benali è legato direttamente al suo “impegno sul campo” e alla sua instancabile attività di denuncia delle ingiustizie sociali. Il partito denuncia con forza questo arresto, definendolo “arbitrario” e “parte di una campagna mirata a silenziare le voci libere e spegnere ogni forma di attivismo autentico”.

La repressione però non si ferma all’arresto di Benali. Nello stesso arco di tempo, altri quattro cittadini sono stati perseguiti penalmente per aver documentato una scena drammatica: il trasporto di una donna incinta su una barella funebre, in una zona montuosa della città di Azilal. Un’immagine che ha fatto il giro dei social, simbolo dell’abbandono e del sottosviluppo strutturale che affligge molte regioni interne del Paese.

Lungi dall’affrontare il problema alla radice, le autorità hanno preferito colpire il messaggero invece del messaggio. L’obiettivo, chiaro, è quello di imporre il silenzio su realtà scomode, criminalizzando chi cerca semplicemente di dare voce alle ingiustizie.

Secondo Idriss Seddraoui, presidente della Lega Marocchina per la Cittadinanza e i Diritti Umani, questi episodi segnano una tendenza preoccupante: quella all’utilizzo di dispositivi giuridici vaghi e punitivi per imbavagliare il dissenso.

“Non è accettabile – ha dichiarato – che dei cittadini vengano perseguiti solo per aver documentato fatti di rilevanza pubblica, in assenza di qualsivoglia intento diffamatorio o lesivo della sfera privata”.

Seddraoui evidenzia una realtà ormai evidente a molti osservatori: nel Marocco di oggi, documentare una sofferenza sociale può diventare un crimine, e la libertà di espressione resta sulla carta, mentre nei fatti viene costantemente erosa.

Anche la libertà di stampa non gode di miglior sorte. Lo dimostra il caso del giornalista Hamid El Mahdaoui, direttore di una testata online, che ha annunciato l’inizio di uno sciopero della fame come forma di protesta contro le continue intimidazioni subite da lui e dalla sua famiglia.

In un post diffuso attraverso i social media, El Mahdaoui ha denunciato una serie di attacchi psicologici, pressioni istituzionali e manipolazioni di documenti ufficiali, il tutto aggravato dal silenzio delle autorità di fronte alle sue richieste di giustizia.

“Sono stato bersaglio di una campagna organizzata, alimentata da media legati al potere”, ha scritto. “A questo punto, non mi resta che usare il mio corpo come ultimo strumento di lotta”.

Di fronte a questa spirale repressiva, la reazione della comunità internazionale resta timida, se non silenziosa. Organizzazioni per i diritti umani hanno più volte denunciato l’arbitrarietà delle detenzioni in Marocco, ma l’efficacia di tali appelli è spesso nulla quando si scontrano con le priorità geopolitiche ed economiche dei Paesi occidentali, interessati a mantenere relazioni stabili con Rabat a prescindere dalle sue pratiche interne.

Nonostante la repressione, il tessuto della società civile marocchina non si è ancora spezzato. Partiti progressisti, leghe per i diritti umani e singoli attivisti continuano a opporsi alla cultura dell’impunità e al dominio assoluto del potere esecutivo. Ma la criminalizzazione del dissenso e la judiciarizzazione della protesta rappresentano segnali inequivocabili di una democrazia malata, nella quale l’opinione divergente è considerata una minaccia anziché una risorsa.

In ogni società che si definisce democratica, il dissenso è un termometro della libertà. Arrestare chi denuncia la povertà, perseguitare chi documenta le ingiustizie, e ridurre al silenzio i giornalisti, sono pratiche che non fanno che scavare un solco profondo tra istituzioni e cittadini. Finché il Marocco non garantirà realmente lo spazio per una critica libera e legittima, ogni discorso ufficiale sulla riforma, il progresso e lo Stato di diritto resterà vuoto, se non addirittura ingannevole.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Pulsante per tornare all'inizio